SCOPRIAMO LO SPORTELLO IRIS: PRIMO CENTRO ANTIVIOLENZA E ANTIDISCRIMINAZIONE PER LE PERSONE LGBTQIA+

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Ad aprile 2023 durante un corso universitario sulla violenza di genere, vengo a conoscenza dello sportello IRIS, primo centro antiviolenza e antidiscriminazione rivolto alle persone LGBTQIA+, che nasce per offrire un supporto a chi nella propria relazione affettiva vive una situazione di violenza o discriminazione e fa parte della comunità. Proprio come per i CAV1, lo sportello Iris mette a disposizione un’équipe che offre percorsi individualizzati con diverse tipologie di servizi: dall’assistenza psicologica alla consulenza legale, dall’accompagnamento sanitario all’orientamento lavorativo e abitativo. Dal momento che sono rimasta particolarmente colpita dal servizio, riconoscendo la vitalità di avere un punto di riferimento di questo tipo per la comunità queer2 , ho deciso di intervistare due operatrici dello sportello, Ylenia Brusoni ed Eleonora Macrì, per conoscere meglio il centro, dalla sua storia al perché nasce, riflettere sul fenomeno della violenza subita dalla comunità LGBTQIA+ e dare rilevanza ai bisogni di cui le persone LGBTQIA+ necessitano e le mancanze che incontrano nei servizi di aiuto.

Sportello Iris nasce ad aprile 2022 dalla collaborazione tra Fondazione Somaschi e Fondazione LILA, sede milanese di Lega Italiana per la Lotta contro l’AIDS, grazie ad un bando finanziato dall’Unar, Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni. «Fondazione Somaschi porta una storia e cultura legata al mondo della violenza, della violenza di genere e violenza nelle relazioni intime; LILA porta più un’esperienza legata al mondo della comunità LGBTQIA+ e della discriminazione, perché di questo si occupa da tantissimi anni» spiega la dottoressa Macrì, psicologa clinica. 

Ma come mai è nato un servizio specifico per la popolazione queer, dal momento che esistono già i centri antiviolenza? Perché bisogna occuparsi di questo tipo di violenza e discriminazione?

«Lo sportello è nato da un’esigenza che è iniziata ad emergere nei centri antiviolenza. Nel senso che Fondazione Somaschi all’interno dei propri CAV, ha notato sempre di più l’emersione di richieste di persone appartenenti alla comunità. Il CAV raccoglieva queste richieste ma non aveva le caratteristiche e la formazione specifiche per accompagnare queste persone in un percorso di fuoriuscita dalla violenza. Lo sportello Iris esiste proprio perché volevamo creare uno spazio che legittimasse alcune richieste che non trovavano uno spazio per venire fuori. Quindi l’obbiettivo è questo: dire “esistiamo, c’è un luogo che accoglie anche questo bisogno. Anche voi potete rivolgervi ai centri antiviolenza”» chiarisce Ylenia Brusoni, educatrice specializzata in antropologia.

È quindi un problema dei centri antiviolenza? Inadeguati per le persone queer? 

Eleonora Macrì specifica: «Il problema non è dei CAV: nessun CAV non accoglie una donna transgender3, non voglio che passi questo messaggio. Il problema è culturale e istituzionale». Infatti «Ci sono delle caratteristiche e dei protocolli che negli anni si sono strutturate rispetto alla violenza di genere, che a volte non forniscono una parità di diritti ad una persona LGBTQIA+ che entra in un percorso di fuoriuscita dalla violenza». Ad esempio, nel processo di assegnazione di una casa rifugio ad una donna che sui documenti risulta di sesso maschile, e su questo il servizio sta già agendo: «Lo sportello Iris è riuscito a farsi un po’ da megafono e dall’anno scorso a Casa Antigone, che è la casa rifugio di Fondazione Somaschi, siamo riusciti ad aprire la strada all’accoglienza di donne transgender. Tutte quelle che abbiamo accolto sui documenti avevano il nome maschile…anche solo il dire “tu sei una donna, puoi entrare in casa rifugio” è stata una conquista sia per lo sportello che per la casa rifugio» racconta Ylenia Brusoni. 

Ma questa non è l’unica conquista dello sportello, infatti grazie al lavoro di rete svolto, adesso il numero 15-22, ovvero il numero antiviolenza e stalking attivo 24h, quando riceve una chiamata che può essere inerente al lavoro di Iris, indirizza adeguatamente la persona coinvolta. «È importante che il numero unico antiviolenza sappia che ci siamo».

Tra l’altro, «l’idea di Iris era anche di strutturare dei percorsi, delle linee guida un po’ nuove che permettessero di parificare, di mettere nella stessa posizione le persone che fanno una richiesta di aiuto per una violenza nelle relazioni intime. Andare nella direzione di tutelare quelle che non ricevono un giusto trattamento all’interno di determinati contesti e iniziare a mostrare agli stessi che c’è anche questa possibilità (persone LGBTQIA+ vittime) e si possono usare gli stessi strumenti che si usano nei contesti di antiviolenza».

Per farmi un esempio, Eleonora Macrì mi racconta che spesso succede che la denuncia di una donna transgender che subisce abusi da un uomo, venga iscritta come lesioni personali, ovvero all’interno dei reati contro la persona. «È un tipo di denuncia molto diversa da quella di maltrattamento, che verrebbe accolta da una donna cisgender4 picchiata da un uomo. Si può fare una denuncia di maltrattamento anche nel primo caso, ma diciamo che tendenzialmente la cultura presente all’interno dei servizi, non porta chi accoglie (le vittime) a tutelare la donna trans in questo senso».

Possiamo parlare di violenza istituzionale5

«Sicuramente c’è tanta ignoranza a riguardo e c’è anche tanto pregiudizio. Sappiamo che ci sono voluti tanti anni di trasformazione culturale, fuori e dentro le istituzioni per arrivare al codice rosso6, così anche in questo caso bisogna iniziare un percorso. Oltre al lavoro della presa in carico individuale, noi cerchiamo di promuovere una cultura e una condivisione rispetto a quello che facciamo, a come funziona la comunità, quali sono diciamo degli elementi che facilitano la relazione con persone LGBTQIA+ e quindi come accoglierle, o ad esempio come gestire le questioni relative ai pronomi».

Ylenia Brusoni porta una riflessione a riguardo: «Ci è capitato di vedere dei casi che sono dall’inizio alla fine da centro antiviolenza “classico”, però secondo me anche il solo sapere che c’è un luogo in cui le professioniste e professionisti utilizzano i pronomi che tu scegli, purtroppo non è scontato. Forse anche questo crea uno spazio di confort e sicurezza». Macrì aggiunge che già vivere una relazione di violenza ci pone in una posizione faticosa: «è difficile stare dentro una dinamica (abusiva) nella quale condividi delle parti, ti senti in colpa, senti di esagerare…è di per sé un aspetto che ti espone ad una grande fragilità. In più se vivi un contesto che non riconosce, che non accoglie una dimensione altrettanto intima e forse più importante, ovvero il tuo orientamento sessuale o identità di genere…a quel punto diventa ancora più difficile».

Se doveste spiegare in poche parole, perché questo servizio è importante ad una persona che non sa nulla di comunità LGBTQIA+, cosa direste?

Ylenia Brusoni risponde citando il tema dell’intersezionalità7 e del minority stress8: «nel senso che la comunità LGBTQIA+ è un insieme di persone che per forza di cose, di strutture culturali, vive più discriminazioni delle altre persone. Quindi uno spazio che faccia fronte a questi problemi, per adesso, è necessario».

Secondo Eleonora Macrì «al momento non ci sono le condizioni per cui i servizi esistenti forniscano una cura adeguata, un servizio paritetico ad una persona transgender rispetto ad una persona cisgender e ad una persona omosessuale rispetto ad una persona eterosessuale. Quindi questo servizio è necessario perché c’è bisogno di aprire dei circuiti, dei processi che speriamo in futuro si governino da soli, senza la necessità di un contesto specifico per la comunità (queer)».

Da chi è composto il team di Iris e quale formazione ha? Perché le persone che lavorano qui sono competenti per interagire con determinate soggettività?

«Noi ci siamo formate e ci continuiamo a formare sul tema». La dottoressa Macrì mi spiega che la competenza del personale sta nelle loro storie ed i loro interessi, che si riflettono nei percorsi formativi scelti, tramite corsi ed esami specialistici. «Per esempio, la parte di accoglienza e case management è formata da me, Ylenia Brusoni e Chiara Sainaghi; tutte e tre abbiamo delle formazioni specifiche diverse. Io sono l’unica psicologa, poi c’è una psicoterapeuta, c’è un’avvocatessa che segue i casi da un punto di vista legale, una consulente esperta sui temi dell’immigrazione, alcuni mediatori culturali. Poi ci sono tutti gli altri servizi con cui ci interfacciamo: altri centri antiviolenza, case rifugio, tra cui Casa Arcobaleno, servizi sociali, servizi del territorio come consultori, CPS, SERD e SERT, altri servizi legati al permesso di soggiorno e immigrazione, la questura, servizi di screening per le malattie sessualmente trasmissibili e le unità di strada».  

Solitamente come funziona la presa in carico di una persona che si rivolge a voi? 

Le operatrici Brusoni e Macrì mi spiegano che «La persona arriva qua e fa un colloquio di accoglienza durante il quale si raccoglie la situazione e la problematica, sulla base di ciò si costruisce insieme alla persona un’idea di progetto per accompagnarla in un percorso di fuoriuscita dalla violenza e dalla discriminazione. È importante per noi identificare IL problema su cui vogliamo costruire il percorso. Tante persone arrivano con una multi-problematicità, spesso legata al fatto di essere parte della comunità queer. Per noi che siamo un CAV, è fondamentale definire o la fuoriuscita dalla situazione di violenza o la gestione di questa situazione. Il resto delle problematicità cerchiamo di gestirle insieme agli altri servizi che possono prendere in carico l’individuo».

Ci sono delle categorie di utenza che ritrovate più esposte a violenza o discriminazione nelle relazioni intime?

Eleonora Macrì risponde che lo sportello non possiede dati a sufficienza per fare una riflessione statistica, in parte perché si parla di un fenomeno sommerso e in parte perché c’è bisogno di tempo per poterlo far emergere tramite i dati. «Il discorso dell’intersezionalità comporta che ci siano alcune categorie di persone più esposte alla violenza di altre. Noi sappiamo che le persone transgender vivono tantissime discriminazioni. E sono le persone che primariamente si sono rivolte a noi». Bisogna specificare anche che Iris ha dei legami con le Unità di Strada del territorio, gruppi di persone che si occupano della prevenzione del rischio e contrasto all’esclusione sociale delle lavoratrici del sesso in strada e non. Al momento, la maggior parte di queste sono donne transgender immigrate dal Sudamerica, per questo mi dicono che non sanno dirmi se la loro esperienza dell’utenza riflette il bisogno effettivo della stessa. «Diciamo che le persone che fanno più fatica ad accedere ai CAV sono gli uomini e le persone transgender e queste sono le persone che si rivolgono di più a noi». Anche Ylenia Brusoni mi dice che lo sportello ha accolto tante persone transgender e uomini cisgender omosessuali, «ma perché una donna queer non fa fatica a rivolgersi al CAV, perché è comunque culturalmente un contesto per donne».

È interessante però una riflessione che pone la psicologa Macrì: «Possiamo dire che gli uomini cisgender omosessuali si rivolgono prevalentemente per discriminazione o violenza fuori dalle relazioni intime. Invece le donne transgender si rivolgono a noi prevalentemente per violenza di genere, cioè violenza nelle relazioni intime. Questo ci dice che forse, da prendere molto con le pinze questa riflessione, anche nella comunità LGBTQIA+ il gruppo maggioritario (che subisce violenza: le donne) rimane il gruppo maggioritario e quindi…c’è questo squilibrio netto di potere degli uomini rispetto alle donne. Poi le relazioni violente esistono nelle relazioni intime con varie sfaccettature, però diciamo che il problema legato al genere femminile è strutturato rispetto a tutti i contesti della società e quindi non è paragonabile».

Rispetto a quello che dicevi sui CAV, possiamo affermare che lo sportello Iris serve a rendere più accessibili questi servizi a determinate categorie di persone?

«Sì, più accessibili e più adatti ai loro bisogni, oltre a creare uno spazio che riconosca e legittimi le loro richieste» risponde l’educatrice Brusoni.

«Nel processo di fuoriuscita dalla violenza, la prima fase è riconoscere di essere vittime di violenza, perché solo se si riconosce, ci si può armare degli strumenti giusti per uscire da quella violenza».

Grazie a sportello IRIS, ora questo è possibile anche per le identità queer.

Di Letizia Viganò

letizia.vigano00@gmail.com

Se tu o una persona che conosci siete vittime di violenza o discriminazione contatta il numero 15-22 o lo sportello Iris.

Lo sportello Iris ha due sedi, l’accesso è libero o su appuntamento:

Per urgenze o info è attivo h24 il numero 329.5870862.  

Note

L’intervista è durata un’ora circa e sono state dette molte cose che non ho potuto riportare nell’articolo, se hai dubbi, domande o curiosità sullo sportello, puoi contattarmi all’indirizzo: letizia.vigano00@gmail.com 

  1. CAV: centro antiviolenza (Campagna “Non sei sola”, Regione Lombardia).
  2. Queer: termine ombrello molto ampio che indica tutte le identità di genere o sessuali che si discostano dalle norme eterosessuali (Vice, 2019). 
  3. Transgender: una persona che non si riconosce nel sesso assegnato alla nascita (Vice, 2019).
  4. Cisgender: una persona che si riconosce nel sesso assegnato alla nascita (Vice, 2019).
  5. Violenza istituzionale: modo in cui l’organizzazione politico-economica di una società colpisce le categorie di persone più vulnerabili attraverso le sue istituzioni (Mattalucci, 2023).
  6. Codice rosso: intervento normativo nato per tutelare le vittime di violenza domestica e di genere. Crea procedure prioritarie per questo tipo di reati, con un generale inasprimento sanzionatorio e l’introduzione di nuove ipotesi di reato (De Leo, 2023).
  7. Intersezionalità: “Modo di comprendere e analizzare la complessità del mondo, delle persone e delle esperienze umane. Quando si parla di disuguaglianza sociale, la vita delle persone e l’organizzazione del potere in una data società sono meglio comprese come modellate non da un singolo asse di divisione sociale, sia esso di razza o di genere o di classe, ma da molti assi che lavorano insieme e si influenzano a vicenda (Collins & Bilge, 2016, Intersectionality, p. 2).
  8. Minority stress: modello usato in psicologia per far riferimento all’impatto della condizione minoritaria, il conseguente pregiudizio e discriminazione, sulla struttura cognitiva dell’individuo (Brooks, 1981).

Bibliografia

Brooks (1981), Minority stress and lesbian women. Lexington, Mass.: Lexington Books.

Collins & Bilge (2016), Intersectionality. Boston: Polity.

De Leo (2023), La normativa nazionale e internazionale contro la violenza di genere. Presentato al corso “Formare le operatrici/operatori sociali per il contrasto alla violenza di genere”, 13 Maggio, Università degli studi Milano Bicocca, Milano, Italia.

Mattalucci (2023), Prospettive intersezionali: casi di studio. Presentato al corso “Formare le operatrici/operatori sociali per il contrasto alla violenza di genere”, 20 Maggio, Università degli studi Milano Bicocca, Milano, Italia.

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