L’epoca dell’indifferenza: comprendere e rompere il silenzio davanti al dolore

“Il male si diffonde quando le persone si convincono che la loro azione non conta”
(Albert Bandura).

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Ci sono immagini che scorrono sui nostri schermi ogni giorno: città distrutte, volti in lacrime, mari che inghiottono speranze. Le guardiamo per qualche secondo, poi passiamo oltre. Non perché non ci tocchino, ma perché ci toccano troppo e il modo più semplice per difenderci è distogliere lo sguardo. Viviamo in un’epoca in cui siamo costantemente connessi, ma anche sempre più distanti emotivamente: sappiamo tutto di tutti, eppure sembriamo incapaci di sentire davvero.
Da un punto di vista psicologico, questa apparente indifferenza non è sempre segno di cinismo, bensì è il risultato di meccanismi profondi che regolano come percepiamo, valutiamo e reagiamo alla sofferenza altrui. L’essere umano non è fatto per reggere la vastità del dolore collettivo e la mente mette in atto strategie di protezione che, paradossalmente, ci disconnettono dall’altro.

L’empatia che ci salva (e che ci stanca)
Paul Slovic, studioso del fenomeno della compassion fade, ha mostrato che la nostra compassione non cresce con il numero delle vittime, ma diminuisce. Siamo più inclini a provare empatia per una singola persona che per un intero popolo in fuga. È come se il dolore collettivo diventasse troppo grande per poter essere sentito (Slovic, 2007).
Allo stesso modo, Miller e colleghi (2019) hanno distinto tra empatia cognitiva, ovvero la capacità di comprendere razionalmente ciò che l’altro prova, ed empatia affettiva, cioè la condivisione diretta del suo dolore. Quando la seconda non viene accompagnata da una buona regolazione emotiva, può trasformarsi in esaurimento empatico: un senso di impotenza che ci porta, inconsapevolmente, ad allontanarci. Così, tra il rischio di sentirci sopraffatti e quello di non sentire più nulla, finiamo per restare intrappolati in un senso di impotenza.

La distanza che anestetizza
Uno dei fattori che alimentano maggiormente l’indifferenza è la distanza psicologica: ciò che è lontano nello spazio, nel tempo o nel gruppo di appartenenza appare meno reale.
Uno studio condotto da Schiano Lomoriello e colleghi (2018) ha mostrato che le nostre reazioni empatiche sono più intense quando percepiamo la persona che soffre come “vicina”, anche solo fisicamente. Lontananza e prossimità non sono solo geografiche: possono essere sociali, culturali o anche mediatiche.
In un mondo iperconnesso, la distanza è diventata una forma di difesa. Scorriamo le notizie senza fermarci, come se la tragedia altrui fosse parte del rumore di fondo della quotidianità. La sofferenza diventa un contenuto tra gli altri, da consumare e dimenticare. In questo modo la psicologia incontra la società: nella trasformazione del dolore in informazione e dell’informazione in abitudine.

Il conforto del gruppo e la paura di agire
Il celebre bystander effect, studiato per la prima volta da Latané e Darley negli anni ’60, dimostra che, in presenza di altre persone, la probabilità di intervenire in una situazione di emergenza diminuisce drasticamente. Più siamo, meno ci sentiamo responsabili. Si tratta della diffusione della responsabilità: l’idea che qualcun altro farà qualcosa ci permette di credere che sia accettabile restare fermi.
Oggi questo meccanismo si ripete anche su scala globale: di fronte a guerre, ingiustizie o crisi umanitarie, molti pensano che manifestare o esporsi non serva, che solo i governi o chi “può davvero cambiare le cose” contino davvero. Così si resta a guardare, senza che le cose cambino.
Dunque, l’indifferenza non è sempre mancanza di cuore, ma è il prodotto di una società che ci ha insegnato a risparmiare le emozioni, a non esporci troppo, a restare osservatori per non sentirci vulnerabili.

Ritrovare la responsabilità emotiva
Comprendere le radici psicologiche dell’indifferenza non serve a giustificarla, ma a riconoscerla per quello che è: una forma di protezione che, se non interrotta, diventa disumanizzazione. Infatti, essere consapevoli di questi meccanismi è il primo passo per superarli.
Non possiamo accogliere tutto il dolore del mondo, ma possiamo imparare a non voltare lo sguardo. Possiamo coltivare forme di empatia attiva, che non mirano a sentire tutto, ma a scegliere di sentire qualcosa e di agire, anche solo con un gesto, una voce, una presa di posizione.
È importante ricordarsi che l’indifferenza non è un destino: è una scelta quotidiana, spesso inconsapevole. Rompere il silenzio non significa farsi carico di tutto, ma riconoscere che ogni volta che ignoriamo una sofferenza, partecipiamo anche solo in minima parte al suo perpetuarsi.

MAURI SOFIA 

maurisofia2005@gmail.com

Instagram: sofia_mauri_

Bibliografia

  • Latané, B., & Darley, J. M. (1970). The unresponsive bystander: Why doesn’t he help? New York: Appleton-Century-Crofts.
  • Miller, J., Griffiths, S., & Sibley, C. (2019). Individual differences in empathy are associated with apathy-motivation. Journal of Personality, 87(1), 184–197.
  • Schiano Lomoriello, A., Meconi, F., Rinaldi, I., & Sessa, P. (2018). Out of sight out of mind: Perceived physical distance between the observer and someone in pain shapes observer’s neural empathic reactions. bioRxiv.
  • Slovic, P. (2007). “If I look at the mass I will never act”: Psychic numbing and genocide. Judgment and Decision Making, 2(2), 79–95.

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