Tempo di lettura: 5 minuti
La Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, che ricorre il 25 novembre, ha l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica e promuovere la cultura del rispetto. Ogni anno, in occasione delle campagne di informazione, il numero 1522 – servizio pubblico di supporto alle vittime di violenza – registra un aumento significativo di chiamate. Un dato che racconta molto: la consapevolezza apre porte che prima sembravano chiuse. Ma come nasce davvero la consapevolezza? Non solo attraverso il riconoscimento del fenomeno e l’informazione sulla rete dei servizi: si genera anche mettendo a fuoco la lente con cui guardiamo il mondo: la nostra cultura. Siamo figli della cultura del contesto in cui cresciamo – non è un pregio né un difetto, è un fatto. Fa parte della cornice invisibile che definisce cosa ci sembra normale, accettabile, inevitabile. Ed è proprio lì, in quella parte silenziosa e spesso inconsapevole, che può attecchire la violenza di genere. Perché non è fatta solo di fatti di cronaca, ma è una ferita che attraversa le relazioni, le case e le comunità.
Uno sguardo alla storia
Per capire quanto la cultura influenzi la violenza di genere, ci aiuta la vicenda di Franca Viola. Nel 1965, a soli diciassette anni, viene rapita e subisce violenza. Ma il suo incubo non termina quando viene liberata dalla polizia, poiché si apre lo scontro con una società che le propone la “soluzione” prevista dalla legge dell’epoca: il cosiddetto matrimonio riparatore. Sposando il suo aggressore, il reato si sarebbe estinto: come se l’obiettivo non fosse proteggere lei, ma tutelare l’“onore” della famiglia. Franca si oppone e dice un “no”, che ha cambiato la storia. Non rifiuta solo un uomo, ma anche ruolo imposto, rifiuta di essere considerata responsabile della violenza subita. In un contesto in cui la vergogna ricadeva sulla vittima, il suo rifiuto diventa un gesto rivoluzionario, che mette in luce una dinamica ancora attuale: la tendenza a spostare l’attenzione dalla responsabilità dell’aggressore al comportamento della donna. Perché non se n’è andata? Perché non ha denunciato prima? Com’era vestita? Con chi era? Domande che rivelano una radice culturale ancora presente. Il matrimonio riparatore sarà abolito solo nel 1981, oggi non esiste più, eppure la cronaca spesso riporta fatti di uomini incapaci di rispettare un “no” nella relazione. Le leggi cambiano, ma la storia ha bisogno di più tempo e non solo: ha bisogno che chi la vive la voglia cambiare, dalle piccole cose, persino, dalle parole, con cui la si racconta. Infatti, un altro passaggio importante è il riconoscimento del termine “femminicidio”, introdotto dalla sociologa Diane Russell per indicare i crimini contro le donne, evidenziando il movente misogino. Ha quindi trasferito il concetto di femmicidio da un contesto esclusivamente accademico e neutrale, che definiva tale fenomeno semplicemente come l’omicidio di una donna, ad un concetto politico, riconoscendo un movente misogino, permettendo così di sviluppare una metodologia adatta a denunciare il fenomeno (Russel, 1992). “Dalla combustione delle streghe all’infanticidio femminile, all’uccisione per l’onore: il femmicidio è in corso da molto tempo.” Sebbene esistesse da secoli, il fenomeno restava nascosto proprio perché privo di un termine che lo definisse. Dare un nome significa riconoscere. Senza riconoscimento, non ci può essere cambiamento.
Uno sguardo al sommerso
Per comprendere come la violenza si radichi nella vita quotidiana, può essere utile l’immagine dell’iceberg: la punta è la violenza fisica visibile, la parte sommersa sono le forme più sottili e normalizzate. Tra queste troviamo i micromachismi (Bonino, 1998), un concetto introdotto dallo psicologo Luis Bonino per descrivere piccole forme di violenza di genere legittimate dal contesto sociale. Si tratta di comportamenti che all’apparenza possono sembrare innocui, ma che in realtà contribuiscono a mantenere un disequilibrio di potere tra uomini e donne. Ad esempio, attribuire compiti o capacità “da donna” o “da uomo” rinforza ruoli di genere rigidi; anche l’umorismo può diventare veicolo di sessismo: battute che rinforzano stereotipi di genere, pur presentandosi come innocue, consolidano atteggiamenti discriminatori e concorrono a consolidare contesti in cui la violenza diventa possibile: sono piccole crepe che, sommate, costruiscono un terreno fertile per forme di violenza più gravi. E per poterle cambiare, il primo passo è riconoscerle: non si può modificare ciò che non si è in grado di vedere.
Uno sguardo al cambiamento
I dati più recenti confermano quanto questo sguardo culturale sia ancora fragile. Secondo la ricerca di Save the Children “Le ragazze stanno bene” (Save the Children, 2024):
- Il 30% delle adolescenti considera la gelosia una forma d’amore.
- Il 20% permette al partner di geolocalizzarla.
Se il controllo viene scambiato per affetto, significa che abbiamo un urgente bisogno di alfabetizzazione emotiva e relazionale. Significa che siamo ancora immersi in un modello culturale che confonde potere e amore, possesso e intimità. Ecco perché la prevenzione non può limitarsi alle leggi o alle campagne annuali: deve entrare nelle scuole, nelle famiglie, nei media, nei linguaggi. L’educazione affettiva, quella capace di riconoscere l’altro come soggetto autonomo, è una forma di prevenzione a lungo termine. Educare significa offrire strumenti per distinguere tra cura e controllo, tra limite e imposizione, tra conflitto e violenza. Credere nell’educazione come forma di prevenzione significa credere nella possibilità che le nuove generazioni costruiscano un immaginario diverso. Un immaginario in cui il “no” sia rispettato, in cui la libertà femminile non sia percepita come una minaccia, in cui l’amore non venga confuso con la paura di perdere l’altro. Significa investire nel cambiamento culturale più potente: quello che inizia dalle parole, dai gesti quotidiani, dall’esempio. La cultura può alimentare la violenza, ma può anche disinnescarla. Dipende da come scegliamo di guardare, e da quanto coraggio abbiamo nel cambiare ciò che ci sembra “normale”. La consapevolezza è il primo passo; il cambiamento è ciò che ne può derivare. E, come ogni cambiamento profondo, nasce da ciò che impariamo a vedere.
Camilla Villa
camillavillapsi@gmail.com
Bibliografia
Bonino, L. (1998). Micromachismos: La violencia invisible en la pareja. Madrid: Ministerio de Trabajo y Asuntos Sociales.
Dipartimento per le Pari Opportunità. (n.d.). 1522 – Numero di pubblica utilità contro la violenza e lo stalking. Presidenza del Consiglio dei Ministri. from https://www.1522.eu
ISTAT. (2021). La violenza di genere: forme e contesti.
Radford J., Russell D., (1992) Femicide: the politics of woman killing, Buckingham, Open University Press
Save the Children. (2024). Le ragazze stanno bene? Indagine sulla violenza di genere onlife in adolescenza. Save the Children Italia.
World Health Organization. (2002). World report on violence and health. WHO Press.
Se ti è piaciuto questo articolo, ti consigliamo anche:
L’epoca dell’indifferenza: comprendere e rompere il silenzio davanti al dolore
SCOPRIAMO LO SPORTELLO IRIS: PRIMO CENTRO ANTIVIOLENZA E ANTIDISCRIMINAZIONE PER LE PERSONE LGBTQIA+

Lascia un commento