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La bellezza non è tutto. Il fatto che la bellezza sia qualcosa di sopravvalutato è condiviso da molti, così come il fatto che sia l’interiorità della persona la vera bellezza: quello che effettivamente conta è come si comporta con gli altri, la sua intelligenza, simpatia, la sua gentilezza. Ma davvero l’aspetto esteriore vale così poco? Molti non la pensano così e, anzi, si ribellano all’ingiustizia del cosiddetto “pretty privilege”. Il pretty privilege è un fenomeno che influenza molti, ma di cui in realtà pochi ne sono davvero a conoscenza. Si tratta, tradotto, del privilegio di essere belli.
Essere belli rappresenta un grande vantaggio nella nostra società, un modo per attirare verso di sé i riflettori e aprirsi continuamente nuove strade, per essere presi sul serio in considerazione. Si è, in un certo senso, più ben disposti verso una persona attraente in numerose situazioni sociali differenti: quando si vuole stringere amicizia, durante un appuntamento romantico o perfino ad un colloquio di lavoro. L’aspetto fisico non è tutto, è vero, però di certo è un fattore importante.
Quando affrontiamo una situazione nuova e dobbiamo analizzare le informazioni disponibili, lo stadio percettivo è il primo che ci troviamo ad attraversare, seguito poi da quello semantico in cui diamo significato e inferiamo il senso degli stimoli percepiti e infine avviene l’immagazzinamento in memoria. Essendo il primo stadio, la percezione è fondamentale per l’individuo: ha lo scopo di individuare un sufficiente numero di informazioni (come colore, posizione, dimensione eccetera) che ci permettono di categorizzare lo stimolo come positivo o negativo. Le prime caratteristiche estetiche di una persona ci forniscono informazioni che poi andranno a influenzare le nostre rappresentazioni successive (Mayer, 2012). Se, quindi, un individuo è percettivamente bello ci sentiamo più attratti da lui, lo consideriamo uno stimolo positivo che rinforza e motiva una successiva e più approfondita ricerca di informazioni: insomma, siamo motivati a conoscerlo meglio.
Psicologicamente si potrebbe giustificare questo fenomeno anche con un altro costrutto: l’effetto alone, ovvero un fenomeno per il quale ci ancoriamo a un particolare per generalizzare e inferire tutte le altre caratteristiche (Tedeschi, Rubaltelli & Baghi, 2008). In questo caso, consideriamo una persona bella e quindi siamo portati a pensare che potrebbe essere anche intelligente, simpatica, socievole, interessante. Anche in questo caso il particolare a cui facciamo riferimento è sempre il primo che viene notato, cioè quello percettivo.
Tuttavia, non dobbiamo dimenticarci che la bellezza è, e resta sempre, un fattore soggettivo e che, chi più e chi meno, siamo sempre tutti influenzati dal contesto sociale e culturale che ci circonda. Quello che la società del momento ritiene bello influenzerà – anche e soprattutto inconsapevolmente – la nostra singola percezione di quello che è bello. Questa influenza avviene costantemente durante tutto il corso della nostra vita, è pervasiva ed è impossibile da evitare: basti pensare ai cartoni della nostra infanzia, dove le principesse sono bellissime, ma oltre a quello sono solari, buone, gentili, coraggiose; mentre i cattivi la maggior parte delle volte sono brutti e caratterizzati da colori cupi come vestiti di nero, grigio o viola scuro.
Nelle pubblicità, nonostante oggigiorno si stiano diffondendo campagne con persone esteticamente sempre più diverse tra loro per trasmettere il tema dell’inclusività, rimane prevalente l’immagine del modello o della modella che prova il prodotto o il servizio promosso con lo scopo di attivare un meccanismo di identificazione proiettiva e alimentare l’illusione di poter diventare come lui/lei tramite l’acquisto e l’utilizzo del prodotto sponsorizzato. Tutto questo sfrutta l’euristica della rappresentatività: per risparmiare risorse cognitive e processare le informazioni più velocemente e col minor sforzo possibile, le classifichiamo sulla base della somiglianza o differenza col prototipo che abbiamo in mente e che consideriamo rappresentativo di quella particolare categoria (Kahneman, 2012). Incontriamo, quindi, una persona particolarmente bella e attraente e la associamo quasi automaticamente alle rappresentazioni che ci siamo formati in cui i personaggi belli risultano caratterizzati anche da un insieme di altre qualità positive come intelligenza, solarità, entusiasmo e così via. Queste rappresentazioni si basano su tutti gli esempi che incontriamo quotidianamente e che contribuiscono a creare un prototipo comprendente tutti gli altri elementi, ed è su questo principio che si basano i movimenti di inclusività e body positivity che si pongono l’obiettivo di normalizzare la diversità per farla diventare sempre più attraente e minimizzare così il pretty privilege.
Si potrebbe dire, in conclusione, che il pretty privilege sia un fenomeno evolutivamente adattivo, sfrutta le euristiche che ci aiutano a prendere decisioni e attuare comportamenti in risposta a situazioni di urgenza che richiedono una reazione immediata. La situazione, però, sfugge di mano quando queste euristiche diventano la via privilegiata di analisi dei dati, facendo passare in secondo piano una via centrale più riflessiva e lenta di elaborazione che non generalizza tutto a partire dalla prima informazione estetica recepita, ma analizza passo per passo tutte le caratteristiche personali dell’individuo, anche quelle più invisibili e nascoste, arrivando a conoscerne il reale valore.
Invece secondo voi? Esiste il pretty privilege?
Di Emma Dalla Costa
emma.dallacosta01@icatt.it
Bibliografia
Mayer, R. E. (2012). Information processing. American Psychological Association
Kahneman, D. (2012). Pensieri lenti e veloci. Edizioni Mondadori.Tedeschi, M., Rubaltelli, E., & Baghi, I. (2008). Le decisioni dei consumatori tra ragione ed emozione: l’effetto alone. Mercati e competitività. Fascicolo 2, 2008, 1000-1020.

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