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Quante volte durante una cena con gli amici ci è capitato di dare un’occhiata allo smartphone?
Magari solo per qualche istante, giusto per controllare le notifiche o per rimanere aggiornati con le storie di Instagram. Tuttavia, quando uno dei presenti si concentra sul cellulare, a catena lo seguono anche gli altri e, nel momento in cui si riemerge dal mondo digitale, ci si sente annoiati e meno interessati alla conversazione.
Questo comportamento prende il nome di phubbing, termine derivante dall’unione di phone (cellulare) e snubbing (snobbare), coniato nel 2012 dall’Università di Sydney e successivamente diffuso in tutto il mondo dalla campagna Stop Phubbing, online dal 2013. Come suggerisce il neologismo, si tratta di un fenomeno che consiste nell’ “atto di snobbare qualcuno in un ambiente sociale”, ovvero: dedicarsi allo smartphone in presenza di altre persone, preferendo l’utilizzo del cellulare all’interazione con i presenti.
Si manifesta nello sbirciare il telefono durante una chiacchierata, nel controllare le notifiche e i social networks appena terminata una conversazione, ma anche nel tenere il cellulare a portata di mano, per esempio, appoggiandolo sul tavolo durante una cena al ristorante.
Diversi sono i contesti in cui il phubbing può verificarsi: al bar con gli amici, a casa con il partner, durante una riunione di lavoro, con i propri figli, a scuola e in molte altre situazioni.
Protagonisti del phubbing sono: il phubber, colui che snobba, e il phubbee, colui (o coloro) che subisce lo snubbing. Alcune caratteristiche comportamentali tipiche del phubber sono: la risposta ritardata a un’eventuale domanda, l’intonazione meccanica nella conversazione, la carenza di contatto visivo e il corpo immobile; tutti segni di disinteresse, nonché forme passive di esclusione sociale.
Questo comportamento, all’apparenza innocuo, può, in realtà, avere conseguenze deleterie: dedicarsi all’utilizzo dello smartphone a scapito del proprio interlocutore riduce notevolmente la qualità della comunicazione e dell’interazione faccia a faccia, in quanto comporta un vissuto di ostracismo e isolamento in colui che subisce lo snubbing (Chotpitayasunondh & Douglas, 2018).
Anche solo appoggiare il cellulare sul tavolo quando si pranza con un amico indebolisce l’intimità e la solidità della relazione; tale gesto manda un messaggio ben chiaro al nostro interlocutore: egli non è la priorità in un momento che dovrebbe essere interamente dedicato all’attenzione reciproca.
Inoltre, il phubbing mina alcuni dei bisogni sociali fondamentali per l’essere umano, quali:
- Il bisogno di appartenenza: il phubbee ha la sensazione di non essere ben voluto e apprezzato dal phubber.
- Il bisogno di autostima: il phubbee, privato di attenzione, dubita di sé stesso in quanto individuo meritevole di considerazione.
- Il bisogno di attribuzione di significato alla propria esistenza: il phubbee sperimenta un senso di esclusione e di invisibilità nel contesto in cui si trova.
- Il bisogno di controllo: il phubbee tenta inutilmente di spiegarsi perché sta venendo ignorato senza riuscire a elaborare questa sensazione di incertezza.
Il senso di esclusione sociale comporta la possibilità che il phubbee metta in atto comportamenti aggressivi (Twenge, Baumeister, Tice, & Stucke, 2001) e/o provi ansia (Baumeister & Tice, 1990), depressione o apatia (Leary, 1990), senso di abbandono (Stillman et al., 2009) e persino dolore fisico (Williams, 2009) e disturbi del sonno (Thomée, 2018).
Dunque, il phubbing non solo compromette la qualità delle interazioni e conseguentemente delle relazioni, ma va anche a minacciare alcuni aspetti costituitivi del Sé, come il senso di autoefficacia.
Nonostante tutto ciò, il phubbing è considerato dai più un fenomeno normativo: quante volte ci capita di vedere i nostri amici, o riconoscere noi stessi, chini sul cellulare durante un’interazione o una festa e non provare alcun senso di disagio perché “è normale” e “lo fanno tutti”?
Dietro alla percezione del phubbing come qualcosa di non dannoso si situano il falso consenso, ovvero la tendenza a considerare il proprio comportamento più diffuso di quanto esso sia realmente; reciprocità e frequenza (Chotpitayasunondh e Douglas, 2016): chi subisce il phubbing tende spesso ad attuare a sua volta il medesimo comportamento, passando fluidamente dall’essere phubber a phubbee, incrementando la frequenza e la reciprocità del fenomeno e ampliando l’effetto del falso consenso in un circolo vizioso che si autoalimenta.
Pearson (2023) riassume quanto appena detto affermando che chi fa uso di questa abitudine è più probabile che la subisca, innescando così un effetto a catena.
Ma quali sono i fattori di rischio che predispongono al phubbing?
Alla base di questo fastidioso comportamento si situa un uso problematico di internet (PIU), più nello specifico:
- la FOMO, acronimo per “fear of missing out” (paura di essere tagliati fuori) che indica una forma di ansia sociale che si manifesta nel bisogno di un costante contatto con gli altri e con le loro attività online.
- la nomofobia (“no mobile -phone- fobia”), ovvero il timore di rimanere senza connessione e quindi isolati.
Secondo Karadağ e colleghi (2015), dipendenza e uso eccessivo di smartphone (Internet Addiction) sono predittori del phubbing, che gli autori definiscono “un disturbo trasversale a molte dipendenze”.
In conclusione, potremmo definire il phubbing come una nuova modalità di isolamento sociale estremamente attuale e pericolosamente sottovalutata, a fronte della quale vanno messe in atto delle strategie di difesa volte innanzitutto a suscitare consapevolezza dei danni relazionali, ma anche a carico del Sé, che ne derivano.
Di Irene Civitillo
ire.civi@gmail.com
Bibliografia
- Chotpitayasunondh, V., Douglas, K. M., (2016). How “phubbing” becomes the norm: The antecedents and consequences of snubbing via smartphone. Computers in Human Behavior, 63, 9-18.
- Chotpitayasunondh, V., Douglas, K. M., (2018). The effects of “phubbing” on social interaction. Journal of Applied Social Psychology, 48, 304–316.
- Karadağ, E., et al (2015). Determinants of phubbing, which is the sum of many virtual addictions: a structural equation model.
- Pearson, C. (2023, July 27). The insidious habit that can hurt your relationship. The New York Times.

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