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La propensione a condividere è una caratteristica tipicamente umana e adattiva in termini di sopravvivenza. Difatti, condividere permetterebbe agli esseri umani di cooperare, comunicare, tramandare conoscenze e instaurare relazioni fino a sviluppare intere comunità (dal latino communitas, derivato di communis: “che è comune, condiviso”) (Grassmuck, 2012). Con l’avvento delle nuove tecnologie e il diffondersi dei social media, l’umana tendenza a condividere è emersa anche in forma digitale e virtuale comportando talvolta alcuni rischi. In particolare, un fenomeno diffuso e strettamente legato a tale questione è lo sharenting, neologismo derivato dall’unione del verbo “to share” (condividere) e del termine “parenting” (genitorialità). Lo sharenting riguarda la condivisione online da parte di un genitore di contenuti e/o informazioni relativi al figlio e alle proprie pratiche genitoriali (Blum-Ross & Livingstone, 2017). Principalmente, i contenuti condivisi afferiscono a cinque aree tematiche:
- Il pisolino e l’ora della nanna
- L’alimentazione
- L’educazione
- L’asilo nido e la scuola
- I problemi comportamentali
(Steinberg, 2017)
Il fenomeno è particolarmente diffuso nel mondo e si stima che l’81% dei bambini di età inferiore ai due anni presenti un’identità digitale dovuta ai contenuti condivisi dai genitori (Siibak & Traks, 2019). In Italia, una recente indagine esplorativa rileva una presenza analoga: il 68% delle madri partecipanti (216) afferma di pubblicare foto dei figli sulla propria pagina Facebook (Cino & Demozzi, 2017). Talvolta, lo sharenting si osserva ancora prima che il bambino sia nato: non è infatti raro che i genitori condividano le ecografie fetali eseguite durante la gravidanza (Leaver, 2017). Pare comunque che i genitori mostrino sia vicende di vita quotidiana sia momenti speciali e fuori dall’ordinario (ad esempio il compleanno, una vacanza e la caduta del primo dentino) (Verswijvel, Walrave, Hardies, & Heirman, 2019).
Svariati sarebbero i motivi sottostanti tale tendenza: secondo gli studiosi, i genitori condividerebbero per dare e ricevere consigli circa le pratiche genitoriali, percepire supporto dai propri contatti, ridurre il senso di isolamento sperimentato, mostrare i progressi del figlio a parenti e amici, collezionare ricordi, presentarsi come buoni genitori, ottenere l’approvazione degli altri, esibire il proprio orgoglio per il figlio (Verswijvel et al., 2019). Lo sharenting pare dunque essere motivato da bisogni intrinseci al ruolo genitoriale e dovuti alle innumerevoli sfide che questo comporta. Tuttavia, se in passato suddetti bisogni trovavano soddisfacimento nell’ambiente di vita reale, oggi il genitore può sentirsi confortato anche nel contesto virtuale dei social network. Questo, secondo Cino e Demozzi (2017, p 156), costituirebbe un “palcoscenico virtuale” che rassicura e gratifica il genitore di fronte all’incertezza che caratterizza il proprio ruolo.
Stando a quanto descritto finora, lo sharenting comporterebbe diversi benefici per l’adulto che debba crescere un figlio. Ciò nonostante, tale fenomeno desta preoccupazione se si considerano i rischi a cui può essere esposto il bambino. Innanzitutto, diversi autori sottolineano come questi bambini subiscano una violazione della privacy, dal momento che i contenuti divengono di dominio pubblico, non potendo inoltre esprimersi sulla decisione dei genitori di condividere (Sorensen, 2016). Tanto è vero che, acquisita la capacità di intendere e volere, la maggior parte dei bambini ritiene che l’adulto non abbia il diritto di pubblicare tali informazioni (Siibak & Traks, 2019). In aggiunta, lo sharenting agevola tragicamente la pedopornografia: alcune indagini evidenziano come quasi la metà delle immagini scovate su siti pedopornografici siano state reperite dai profili social dei genitori (Steinberg, 2017). Pare aumentare anche il rischio di adescamento online del minore, nel momento in cui egli farà utilizzo dei social network (Blum-Ross & Livingstone, 2017). Inoltre, le informazioni condivise dai genitori lasciano traccia e progressivamente confluiscono in un’identità digitale che può disturbare la formazione identitaria durante l’adolescenza. In altre parole, il bambino, divenuto adolescente, deve faticosamente confrontarsi con i contenuti pubblicati dai genitori e con l’immagine di sé che ne deriva. Questi potrebbero poi risultare imbarazzanti ed esporre il ragazzo ad aggressioni e denigrazioni da parte di bulli e cyberbulli (Marasli, Suhendan, Yilmazturk, & Cok, 2016).
Dunque, lo sharenting rischia di comportare effetti negativi sia a breve che a lungo termine, ostacolando la crescita serena e armonica del bambino (Steinberg, 2017). Per chiunque lavori nel settore, è doveroso sensibilizzare l’opinione pubblica rispetto ai rischi che lo sharenting può implicare, considerando soprattutto l’attualità e la diffusione che contraddistinguono il fenomeno. I social media rappresentano simultaneamente un mondo di vantaggi e di insidie, per cui sarebbe ingenuo discutere se sia meglio utilizzarli o meno. Piuttosto, bisognerebbe riflettere sul modo in cui vengono impiegati. In quest’ottica, il genitore che intenda condividere contenuti relativi al figlio dovrebbe essere consapevole dei rischi che tale pratica comporta, agendo in modo che il proprio desiderio non prevalga sui diritti del bambino alla privacy e alla salute.
Di Filippo Tonon
filippo.tonon@hotmail.it
Bibliografia
Blum-Ross, A., & Livingstone, S. (2017). “Sharenting”, parent blogging, and the boundaries of the digital self. Popular Communication, 15(2), 110-125.
Cino, D., & Demozzi, S. (2017). Figli “in vetrina”. Il fenomeno dello sharenting in un’indagine esplorativa. Rivista Italiana di Educazione Familiare, (2), 153-184.
Grassmuck, V. (2012). The Sharing Turn: Why We are Generally Nice and Have a Good Chance to Cooperate our Way Out of the Mess We Have Gotten Ourselves Into. Political Behavior: Cognition.
Leaver, T. (2017). Born digital? Presence, privacy, and intimate surveillance. In Hartley, John & W. Qu (Eds.), Re-Orientation: Translingual Transcultural Transmedia. Studies in narrative, language, identity, and knowledge (pp. 149–160). Shanghai: Fudan University Press.
Marasli, M., Suhendan, E., Yilmazturk, N. H., & Cok, F. (2016). Parents’ shares on social networking sites about their children: Sharenting. The Anthropologist, 24(2), 399-406.
Siibak, A., & Traks, K. (2019). The dark sides of sharenting. Catalan Journal of Communication & Cultural Studies, 11(1), 115-121.
Sorensen, S. (2016). Protecting Children’s Right to Privacy in the Digital Age: Parents as Trustees of Children’s Rights. Child. Legal Rts. J., 36(3), 156.
Steinberg, S. B. (2016). Sharenting: Children’s privacy in the age of social media. Emory LJ, 66, 839.
Verswijvel, K., Walrave, M., Hardies, K., & Heirman, W. (2019). Sharenting, is it a good or a bad thing? Understanding how adolescents think and feel about sharenting on social network sites. Children and Youth Services Review, 104, 10.
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