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Rispetto all’Unione Europea, il tasso di partecipazione al lavoro delle donne italiane è tra i più bassi, pur avendo conosciuto un cospicuo aumento negli ultimi anni. L’Italia è al trentesimo, nonché quartultimo, posto in Europa per occupazione femminile, con il 46,1% di occupazione a fronte di una media Europea che si aggira intorno a percentuali più elevate (58,2%) (Eurostat, 2010). Una delle origini di questa lapalissiana discriminazione di genere è rintracciabile nel fenomeno del gender bias, ossia una forma di distorsione, tendenza e polarizzazione del pensiero, sulla base di un pregiudizio di genere.
Unbias cognitivo (tra cui il bias di genere) in psicologia cognitiva viene definito come un automatismo mentale inconscio che ci porta a prendere decisioni in fretta e senza fatica, decisioni che però sono sbagliate poiché l’automatismo mentale su cui si basano è fondato su percezioni errate o deformate da pregiudizi ed ideologie.
Questi dati non sono una conseguenza di esperienze di istruzione o competenze diversificate; inoltre, la percentuale complessiva di lauree triennali e magistrali ottenuta dalle donne in Italia supera quella maschile (ISTAT, 2010). In termini di abilità fisiche e cognitive, uno studio di Biernat e Deux (2012) dimostra che non vi è una sostanziale differenza di genere, bensì una similitudine e convergenza.
Il presente articolo si propone di analizzare e comprendere in che modo un “pregiudizio inconscio” ed una mappa mentale, consolidata nel contesto socio-culturale di appartenenza, possano influenzare la selezione e valutazione del personale; in particolare, approfondiremo lo stereotipo di genere (o gender bias), relativamente ai lavori dichiarati come tipicamente maschili. Questa comprensione sarà necessaria a tutte le organizzazioni che credono e desiderano attuare una diversificazione della propria forza lavoro.
Per avere delle coordinate più precise relative al contesto socio-culturale in cui si muove l’analisi condotta in questo articolo, è bene ricordare gli studi sociologici condotti da Gerda Lerner in La Creazione del Patriarcato, nei quali viene il contesto socioculturale viene definito come: Patriarcale.
Il Patriarcato è un sistema sociale in cui i membri di genere maschile detengono principalmente il potere e predominano in ruoli riguardanti la leadership politica, l’autorità morale, il privilegio sociale e il controllo della proprietà privata. A livello di struttura famigliare, il padre o la figura paterna esercita la propria autorità sulla donna e i figli. Le società patriarcali inoltre, sono molto spesso anche patrilineari, il che significa che i beni familiari e il titolo vengono ereditati dalla prole maschile.
Il più diffuso gender bias riguarda l’attribuzione di qualità ai generi: rispettivamente, gli uomini vengono teorizzati come più attivi ed agenti, assertivi ed autonomi, mentre le donne vengono ritenute “comunitarie” (Diekman, A. B., Eagly, A. H.,2000), ossia premurose e sensibili emotivamente. Lo stesso stereotipo di genere, chiaramente oppositivo, denota le donne come prive di arbitrio e gli uomini come privi di comunanza.
Gli stereotipi di genere sono pervasivi e trasversali alle differenti culture (Williams, J.E., Best, D.L., 1990): un recente sondaggio su 529 unità, distribuite a livello mondiale, ha portato evidenza di come gli uomini ricevano, nella valutazione, punteggi più alti rispetto alle dimensioni dell’assertività e della capacità decisionale; viceversa, le donne ricevono punteggi superiori rispetto ai tratti comunitari (Hentschel, T., Heilman, M.E., Peus, C., 2013).
Gli stereotipi di genere devono essere compresi ed analizzati, in quanto hanno importanti implicazioni sulla percezione che un selezionatore può avere relativamente all’inadeguatezza del fit tra genere e posizione lavorativa. Alcuni ruoli vengono inconsapevolmente etichettati come maschili, a causa della cultura e delle relative inferenze rispetto alle qualità richieste per la posizione e le responsabilità in oggetto. Alcuni studi confermano una massiccia presenza maschile nelle posizioni più apicali all’interno di un’organizzazione; posizioni manageriali o di C-Level vengono più spesso pensate come maschili per l’attribuzione stereotipata di gender-qualities (Powell, G.N., Butterfield, D.A., Parent, J.D.,2002; Powell, G.N.,2011). La fallacia è esattamente questa: non vedere possibile alcuna corrispondenza tra le qualità attribuite al genere femminile e le qualità richieste in certi ruoli di responsabilità (Heilman, M.E., 2012). Questa incongruenza tra la rappresentazione del femminile e le convinzioni relative ai requisiti “nice to have” crea una percezione di fit mancante, una delle principali cause del tortuoso percorso che una donna deve affrontare per entrare e crescere in un’organizzazione. Una meta-analisi di 49 studi di psicologia sociale e psicologia organizzativa fornisce supporto rispetto a questa idea: per posizioni targetizzate come maschili, le donne ricevono punteggi inferiori nella valutazione e, se ottengono una proposta economica, quest’ultima risulta sempre inferiore rispetto a quanto proposto alla controparte maschile. Connotare un ruolo come maschile avrà delle forti ripercussioni sul target selezionato per quella posizione, analizzato e scremato sulla base del genere. La scrematura sarà maggiormente aggravata, infine, dalla presenza del ruolo sociale di madre, negativamente connotato e correlato positivamente con delle valutazioni compromesse ed inferiori, relativamente al fit profilo-ruolo.
Ciò che può attenuare la discriminazione di genere è il contesto organizzativo; portando un esempio, sarà molto più difficile per una donna essere selezionata come manager presso una società di servizi finanziari e sarà molto più semplice essere selezionata come manager di un asilo nido, in quanto quest’ultimo contesto è tipizzato e qualificato in un modo sostanzialmente differente e più vicino agli attributi comunitari, che inconsciamente vengono attribuiti al genere femminile.
Uhlmann e Cohen (20005) portano evidenze di come i selezionatori, durante la valutazione di un lavoro o di una performance, tendano a sopravvalutare e sottostimare rispettivamente il genere maschile e quello femminile, a seconda del ruolo. Per arginare questo fenomeno, le organizzazioni dovranno avvalersi di una struttura valutativa standardizzata, che consenta di ridimensionare aspettative e stereotipi di genere nella valutazione del personale (Bragger, J.D., Kutcher, E., Morgan, J., Firth, P., 2002; Biernat, M., Fuegen, K., Kobrynowciz, D., 2010).
Diventa necessario, in questo contesto, tematizzare alcuni risultati di studi recenti, che dimostrano che la presenza di donne nei consigli d’amministrazione è spesso correlata ad una maggiore sostenibilità organizzativa; inoltre, le aziende con donne in posizioni apicali, a livello di organigramma, riescono ad affrontare fenomeni come fusioni ed acquisizioni in modo più efficiente, essendo quest’ultime meno inclini al rischio (Levi, M., Li, K., Zhang, F., 2014).
L’invito alle organizzazioni è quindi triplice:
- Contrastare le aspettative e gli stereotipi di genere, derivanti da percezioni inadeguate;
- Standardizzare i processi di selezione e valutazione, andando a limitare l’ambiguità;
- Aumentare la motivazione dei collaboratori HR nel valutare accuratamente i potenziali candidati.
Solo quando ogni candidato verrà valutato sulla base dei propri meriti, staremo perseguendo l’uguaglianza di genere e la massimizzazione del capitale umano per le organizzazioni.
Concludo l’articolo con una citazione di Riccarda Zezza, CEO di Lifeed e Founder di MaaM: “Cosa conviene fare con la responsabilità: normalizzarla, connotarla, oppure aprire il dibattito su questa espressione così comune, ma evidentemente carica di stereotipi?”
Di Sara Perego e Tommaso Tunesi
tommyatune@libero.it
Bibliografia
Biernat, M. and K. Deaux (2012), ‘A history of social psychological research on gender’, in A.W. Kruglanski and W. Stroebe (eds), Handbook of the History of Social Psychology, New York: Psychology Press, pp.475–98.
Biernat, M., K. Fuegen and D. Kobrynowicz (2010), ‘Shifting standards and the inference of incompetence: effects of formal and informal evaluation tools’, Personality and Social Psychology Bulletin’, 36(7), 855–68.
Bragger, J.D., E. Kutcher, J. Morgan and P. Firth (2002), ‘The effects of the structured interview on reducing biases against pregnant job applicants’, Sex Roles, 46(7–8), 215–26.
Diekman, A.B. and A.H. Eagly (2000), ‘Stereotypes as dynamic constructs: women and men of the past, present, and future’, Personality and Social Psychology Bulletin, 26(10), 1171–88.
Eurostat (2010). Labour market employment statistics. Da http://epp.eurostat.ec.europa. eu/portal/page/portal/national_accounts.
Heilman, M. E. and Manzi, F. and Braun, S. (2015) ‘Presumed incompetent: perceived lack of t and gender bias in recruitment and selection.’, in Handbook of gendered careers in management: getting in, getting on, getting out. Cheltenham: Edward Elgar, pp. 90-104.
Heilman, M.E. (2012), ‘Gender stereotypes and workplace bias’, Research in Organizational Behavior, 32, 113–35.
Hentschel, T., M.E. Heilman and C. Peus (2013), ‘Have perceptions of women and men changed? Gender stereotypes and self-ratings of men and women’, paper presented at the Society of Personality and Social Psychology Annual Conference, New Orleans.
Lerner G. (1986), La creazione del patriarcato, Katakrak
Levi, M., K. Li and F. Zhang (2014), ‘Director gender and mergers and acquisitions’, Journal of Corporate Finance, 28(C), 185–200.
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Powell, G.N. (2011), ‘The gender and leadership wars’, Organizational Dynamics, 40(1), 1–9.
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Williams, J.E. and D.L. Best (1990), Measuring Sex Stereotypes: A Multination Study, revised edition, Thousand Oaks, CA: Sage Publications.
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