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Grazie ai social, molti argomenti sono ormai alla portata di tutti, sebbene la discussione si fermi spesso alla condivisione di meme. Discutere online sembra non essere mai “fuori trend”, specialmente quando emergono idee “complottiste”. Perché il dibattito su alcuni temi è così acceso e polarizzato? Le cospirazioni originano solo dall’ignoranza o vi sono fattori psicologici più profondi in gioco? Una risposta razionalista è utile o controproducente?
Per “complottismo” s’intende un sistema di credenze nato laddove un individuo provi dare una spiegazione “alternativa” agli eventi, a volte imputandone le cause a cospirazioni occulte. A livelli estremi, processi mentali di questo tipo possono prodursi dalle massicce proiezioni tipiche di personalità paranoidi. Queste proiezioni si riferiscono a qualità negative e paure personali che si trasformano successivamente in minacce esterne. Tuttavia, in questa sede, con il termine proiezioni intenderemo tutte le convinzioni irrazionali, che non soddisfano per forza i criteri per una diagnosi clinica. Secondo lo psicologo e divulgatore Alessio Rocco Ranieri, esisterebbe anzi un complottista “sano”, ossia lo scettico, il curioso, come ce ne sono stati tanti nella storia: colui che si pone delle domande per sincera preoccupazione o interesse e valuta ogni alternativa. Al contrario, il complottista “tossico” non è mosso dal dubbio, bensì dalla certezza di conoscere una verità misteriosa e inspiegabile, al di là delle spiegazioni causa-effetto scientifiche, in una sorta di pensiero magico.
La dimensione identitaria è molto importante: chi crede a teorie cospirazioniste ha spesso bisogno di sentirsi unico, un custode di segreti sconosciuti ai più (Lantian et al., 2017). A questo si aggiunge il bias di conferma (cercare solo notizie a supporto del proprio sistema di idee/valori), che inasprisce la polarizzazione (spostarsi sulla posizione “estrema” di un’opinione), la quale, secondo il professor Walter Quattrociocchi, alimenta le fake news diffuse nei movimenti cospirazionisti. Oggi le informazioni sono accessibili a tutti, non più solo mediate dagli esperti: di fronte al “mare” di conoscenze disponibili si prediligono informazioni vicine alla propria visione del mondo, e le persone che le condividono. Nascono quindi le “echo chambers”, gruppi ristretti di utenti con uno stesso pensiero.
In un Webinar promosso dall’Ordine degli Psicologi della Lombardia (“Cosa si nasconde dietro il complottismo?”, 18 gennaio 2021), il fact checker (giornalista che “sfata” le fake news) David Puente sottolinea come anche i “razionalisti” siano, talvolta, polarizzati: “esistono anche gruppi di ultra anti-complottisti”, afferma, “i quali usano il fact checking solo per screditare e umiliare l’avversario, mettendone in luce l’ignoranza e senza un vero interesse divulgativo”. Anche questo atteggiamento, commenta Quattrociocchi nel webinar, esprime un bisogno identitario razionalista e antinomico al complottismo, certo, ma che rivela un tentativo, di forza uguale e contraria, di controllare l’incontrollabile.
Ma rispondere alla polarizzazione complottista usando le sue stesse armi ha un valore persuasivo? Per rispondere ci viene in aiuto la teoria del giudizio sociale di Sherif e Hovland (1961). Secondo gli autori, i nostri atteggiamenti su ogni tema viaggiano su un continuum che va dalla completa accettazione al totale rifiuto, passando per una zona di non-impegno, dove si collocano le affermazioni con cui non siamo né in accordo né in disaccordo. Ogni nuova idea viene inserita nel proprio sistema di valori per assimilazione (venendo accettata) o contrasto (venendo rifiutata). Tali forze “distorcono la percezione della reale discrepanza tra la propria posizione e quella del messaggio” (Cavazza, 2006). Cosa vuol dire questo? Significa che opinioni non coincidenti con i propri valori ma abbastanza vicine vengono assimilate e percepite più simili di quanto non siano; al contrario, informazioni relativamente lontane, anche se non del tutto opposte, vengono percepite, per contrasto, come molto più diverse di quanto non siano. La persuasione si gioca quindi nella zona di non-impegno: il buon persuasore è colui che sa convincere l’interlocutore del fatto che le loro idee siano simili e che, gradualmente, riesca a far spostare gli atteggiamenti del pubblico da una zona all’altra. Non è quindi possibile passare nell’immediato da un polo al suo opposto, né sarebbe utile provarci: sottoporre all’altro un’opinione diametralmente opposta, produrrà solo un effetto boomerang, ossia un inasprimento difensivo della posizione di partenza. Per ottenere un cambiamento, dunque, si dovranno fornire posizioni che prevedano una discrepanza moderata, che rimangano almeno in una certa quantità simili all’atteggiamento bersaglio che si desidera modificare. Lo scontro tra razionalisti e complottisti (specie se online) termina infatti di rado con una “conversione” di questi ultimi, ma anzi, con l’inasprimento delle loro idee.
Non possiamo accettare che si diffondano fake news e ideologie dannose in rete, certo, ma è bene sapere che le modalità che tendiamo ad usare in automatico sui social non hanno reale efficacia persuasiva, sono per lo più espressione di un nostro bisogno. E chi voglia fare il divulgatore, soprattutto in campo psicologico, deve esserne consapevole.
Lo scopo dovrebbe essere quello di mitigare la polarizzazione. In che modo? Secondo Quattrociocchi, nella sua intervista per Scienza In Rete bisognerebbe sfruttare “nuove narrazioni. L’essere umano non è razionale, come ci ostiniamo a credere, bensì ha una visione del mondo che è emotiva e percettiva. La comunicazione deve essere mirata al fabbisogno informativo dell’utente. Lo scherno e la presunzione di autorità aumentano solo la polarizzazione. Bisogna entrare nell’echo chamber, capire quali siano i bisogni informativi degli individui e il motivo della loro resistenza” (2018). Tutto ciò può avvenire solo incominciando a conoscere davvero gli atteggiamenti che desideriamo modificare, e la tipologia di persona che ne è portatore.
Di Stefania Toniolo
BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA
Cavazza, N. (2006). La persuasione. Bologna: il Mulino.
Lantian, A., Muller, D., Nurra, C., & Douglas, K. M. (2017). “I know things they don’t know!”: The role of need for uniqueness in belief in conspiracy theories. Social Psychology, 48(3), 160–173.
Vicario, M. D., Quattrociocchi, W., Scala, A., & Zollo, F. (2019). Polarization and Fake News. ACM Transactions on the Web, 13(2), 1–22.
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