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“Nel rapporto madre-bambino, la madre rappresenta il fattore ambientale o, se si preferisce, si può dire che la madre rappresenta l’ambiente.” (R. Spitz, Il primo anno di vita del bambino, Giunti-Barbera, Firenze, 1972).
Secondo la definizione dell’Enciclopedia Treccani, ambiente è “tutto ciò che circonda e con cui interagisce un organismo”, ed è proprio per questo che il legame con la figura materna (o comunque, con la persona che riveste il ruolo di caregiver primario) nei primi anni di vita del bambino costituisce un fattore considerevole nello sviluppo della sua salute mentale.
Uno dei primi studiosi a teorizzare l’importanza delle cure materne attraverso l’osservazione infantile, è René Arpad Spitz, noto psichiatra di origine viennese. Gli studi che l’autore svolse tra il 1945 ed il 1946 coinvolgendo due gruppi di bambini e le loro madri, confermarono il valore del legame affettivo che si stabilisce con il caregiver (o con il suo sostituto), in particolare nei primi tre mesi di vita.
Il primo insieme era costituito da bambini accuditi dalle proprie madri in un carcere femminile, mentre il secondo campione comprendeva bambini abbandonati e ricoverati in un istituto, curati dal punto di vista igienico e nutriti regolarmente da operatrici competenti.
Quest’ultimo gruppo presentava sintomi preoccupanti, quali: mancanza di risposte agli stimoli esterni, crisi di pianto, ritardi motori, impossibilità di camminare e stare in piedi, rifiuto completo del contatto con gli estranei e facoltà di linguaggio compromessa. Circa un terzo dei bambini ospedalizzati morì entro il secondo anno di vita. Questo fenomeno, definito “depressione anaclitica”, permette di riflettere sul ruolo che la figura del caregiver ricopre durante tutto il periodo in cui il bambino non è ancora in grado di fare affidamento su sé stesso.
La carenza di cure materne durante la prima infanzia ha ripercussioni sulla salute mentale e sullo sviluppo della personalità del bambino, compromettendo in alcuni casi la capacità di stabilire rapporti affettivi nell’età adulta. A tal proposito è bene prendere in considerazione vari fattori, quali l’età del piccolo, la durata della separazione e il grado di carenza subita. Dopo la seconda metà del primo anno di vita, la carenza materna avrà ripercussioni gravi nella vita del futuro adulto, che potrebbero essere in parte evitate se qualcuno sostituisse la madre durante il primo anno.
Secondo gli studi di Golfbard, inoltre, le cure materne sono inutili in bambini carenzati (che non godono di cure materne) di più di due anni e mezzo.
Per quanto riguarda la durata della separazione risulta banale dire che maggiore è il tempo che il bambino trascorre senza il caregiver, maggiore sarà il rischio per il bambino di incorrere in una guarigione imperfetta ed incompleta.
Una carenza parziale potrebbe provocare ansia, stati depressivi e sentimenti di vendetta nei confronti del caregiver al suo ritorno, mentre una carenza totale è in grado di compromettere tutti i legami affettivi futuri, che saranno superficiali e poco rilevanti per il soggetto.
Il legame madre-bambino deve essere costante per favorire un buono sviluppo del piccolo: come afferma Spitz, nei primi mesi di vita, il bambino non ha capacità di discriminazione, il suo apparato percettivo non è ancora ben sviluppato, “quindi è l’atteggiamento affettivo della madre che serve di orientamento per il lattante” (R. Spitz, 1972). È proprio la madre (o chi la sostituisce) che svolge la funzione di “Io-ausiliario” mediando il rapporto con il mondo esterno finché il bambino non svilupperà la capacità di gestire gli eventi in modo autonomo; è lei la persona che il bambino cerca nei momenti di stress, novità, paura, sconforto ed alla quale si rivolge nel momento in cui ha bisogno, sin dalla nascita.
“…Il comportamento di attaccamento caratterizza l’essere umano dalla culla alla tomba”, afferma lo psichiatra e psicoanalista Jhon Bowlby nella sua opera The Making and Breaking of Affectional Bonds, 1979.
L’autore, successivamente all’aver approfondito le scoperte sull’imprinting di Konrad Lorenz (1935), elaborò la celebre teoria dell’attaccamento.
Con il termine “attaccamento” ci si riferisce al comportamento che il bambino manifesta nei confronti del caregiver (ritenuto in grado di affrontare il mondo in modo adeguato), con il fine di mantenersi vicino a lui.
Bowlby si distacca dalla concezione Freudiana secondo le quali è il cibo a costituire la pulsione primaria, dimostrando che l’attaccamento è un comportamento istintivo e biologicamente determinato: l’attaccamento del bambino alla madre non è quindi acquisito, e soprattutto non dipende dalla gratificazione dei bisogni da parte del caregiver.
Anche le ricerche di Harlow (anni ’50) sui piccoli di scimmia rhesus danno prova che la tendenza al contatto e alla vicinanza sia un’attitudine “piuttosto innata”. Durante l’esperimento i cuccioli si trovavano a condividere la gabbia con due artefatti: il primo era costituito da una struttura metallica provvista di una bottiglia, che poteva quindi fornire nutrimento; il secondo era invece un pupazzo morbido, rivestito di peluche, che non poteva provvedere ad alcun tipo di alimento. I risultati dimostrano che l’attaccamento si manifestava maggiormente nei confronti della madre peluche, anche se essa non era in grado di fornire la gratificazione del bisogno primario. Anche l’ambiente all’interno della gabbietta era esplorato in maniera differente in presenza di quest’ultima: la madre peluche forniva una sorta di sicurezza, indispensabile nei primi anni di vita, sia della scimmia rhesus, che del bambino.
Di Maria Stella Nocchi
mariastella.nocchi@studenti.unipg.it
BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA:
Cure materne e salute mentale del bambino, J. Bowlby
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