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Cosa ci spinge a modificare il nostro corpo per sempre? Come leggere e interpretare l’espressione di una soggettività, alterata in maniera permanente nella corporeità?
Partendo da queste domande, il presente articolo si propone di indagare la dimensione psicologica connessa alla pratica del tatuaggio, rientrante nella categoria del body marking. Questa dimensione psicologica associata alle modificazioni del corpo è ormai diventata una delle caratteristiche tipiche della moderna società occidentale ed è favorita nella loro popolarità dai media, in particolare tra la fascia d’età più giovane (tra i 17 e i 25 anni) (D’Ambrosio, A., Martini, V., Casillo, N., 2010).
L’arte del tatuaggio, tuttavia, non è certamente una pratica considerabile post moderna, bensì secolare. Diverse tribù hanno associato, nel corso degli anni, valenze distinte: nella civiltà maori, il tatuaggio era usato come una pratica che indicava la casta di appartenenza sociale, oppure il mestiere; in alcune tribù del Nord Africa, i tatuaggi erano visti come forme di protezione da malefici e malattie; infine, le tribù vichinghe, si tatuavano simboli di protezione legati spesso al culto panteista da loro praticato (Green, T., James, G., 2005).
Nella società post moderna, credo sia riduttivo parlare esclusivamente di pratiche sociali e religiose, in quanto l’individuo, come dice Bauman (1999), si trova oggi di fronte ad una sfida quotidiana: essere, esistere, distinguersi, attraverso delle scelte ben precise. Risulta dunque necessario analizzare il significato più complesso di cui oggi un tatuaggio si fa portavoce. Ciò che è degno di interesse è che la pratica del tatuaggio sta diventando sempre più svincolata da taboo e pregiudizi. A sostegno di ciò, come riportato nell’articolo di D’Ambrosio e collaboratori (2010) – oltre all’evidenza che circa una persona su 5 decide di tatuarsi per una funzione puramente estetica – vi è il racconto dei partecipanti allo studio relativamente al giudizio del contesto di appartenenza: solo l’8,2% dei soggetti riporta di essere stata mal giudicata e l’1,4% disprezzata. Vi sono poi delle percentuali più rincuoranti: il 41,5% del campione riporta di aver vissuto un’esperienza di totale tolleranza da parte del contesto di appartenenza ed il 25,9% riporta un vissuto di condivisione rispetto alla decisione di tatuarsi.
Trovo per questo limitante il parere dell’antropologa Annamaria Fantauzzi (2009), che ritiene il tatuaggio unicamente un modo di conformarsi al gruppo dei pari, una moda mediaticamente promossa, che risponde ai bisogni di appartenenza ad un gruppo e di riconoscimento sociale. Per quanto questa sia una delle motivazioni emerse in diversi studi sperimentali, ve ne sono altre concomitanti e di rilevante importanza.
In uno studio di Martino, Cella, Iannaccone e Cotrufo (2012), sono stati somministrati ad un campione di 485 soggetti, compresi tra i 18 e i 40 anni, i seguenti strumenti: la scala IM dell’ED2 (Eating Disorder Inventory) e il Body Uneasiness Test ed il General Health Questionnaire. La ricerca, oltre a quantificare la presenza di body marking in una popolazione naturale, si pone come obiettivo quello di indagare le motivazioni coscienti che gli individui riconoscono come determinanti rispetto alla scelta di tatuarsi. In questo campione, circa una persona su 3 (31,3%) riporta come motivazione il desiderio di esprimere il proprio sé, utilizzando la propria pelle, unico confine con l’alterità. Il 27,2% dei partecipanti attribuisce al tatuaggio la funzione di ricordo, rispetto a eventi importanti ed il cui segno, oltre a rimanere psicologico, diventa corporeo, visibile e raccontabile. Un’importante percentuale del campione decide di attribuire al tatuaggio una mera funzione estetica: decorare il corpo (17%) e sentirsi attraente (10,9%). La funzione estetica che si attribuisce al tatuaggio sembra avere una forte correlazione rispetto ad una mancanza di soddisfazione ed autostima relative alla propria immagine corporea: il tatuaggio, in questi casi, ha funzione ornamentale e di catalizzatore rispetto ad un’accettazione fisica della propria persona. Non a caso, è stata dimostrata una correlazione tra la presenza di tatuaggi e la presenza di disturbi del comportamento alimentare (Kertzman et al., 2019). Infine, il 6,1 % del campione si tatua poiché riconosce nella pratica un modo per sentire il proprio corpo, in linea con la teoria per cui le persone tatuate sono persone più propense a ricercare le sensazioni, per questo denominate “sensation seekers” (D’Ambrosio et al., 2010). Alcuni riferimenti bibliografici ci hanno aiutato a trarre interessanti affondi e profilazioni circa la popolazione tatuata. In particolare, D’ambrosio, Martini e Casillo (2010) hanno riscontrato delle correlazioni della pratica del tatuaggio rispetto ad una propensione ad eventi autolesivi ed, in generale, ad un ridotto benessere psicologico, o ancora alla presenza di un tratto di personalità borderline. Sembra che i tatuaggi siano preferiti da persone alessitimiche, ossia incapaci di riconoscere, esprimere e comunicare i propri vissuti ed emozioni. Per questo motivo, una delle funzioni più interessanti che si cela dietro al tatuaggio è quella del racconto e della narrazione del sé.
È attraverso la comunicazione non verbale ed estetica insita nella natura del tatuaggio che sia soggetti alessitimici sia persone con il desiderio di raccontarsi trovano uno spazio ed un canale per la narrazione ed il ricordo del sé, più intimo e nascosto all’altro. La decisione diventa, dunque, quella di raccontarsi attraverso la propria pelle, la parte con cui ci si relaziona all’altro, l’unica parte in cui il giudizio ed il racconto dell’altro non possono interferire con la propria storia. La pelle diventa un’area protetta in cui potersi raccontare, non permettendo agli altri di raccontarci. È un modo per ricordare eventi significativi, storie tormentate, rinascite; per auto-creare, una carta d’identità ed un biglietto da visita che il solo soggetto ha il potere di modificare.
In questo mondo, in cui gli occhi dell’altro ci definiscono, il tatuaggio è un paradosso: una forma di espressione, di racconto e narrazione che implicitamente dice del bisogno fisiologico umano di relazione. Una forma di protezione e di ribellione alla definizione che la relazione può dare di noi.
Il tatuaggio diventa la corte dei Feaci, dove è solo Ulisse che racconta ad un pubblico di ascoltatori; è il solo sé che si racconta, senza cadere nelle modifiche, negli stereotipi e generalizzazioni in cui l’alterità tenta di incastrarci. È un grido alla propria unicità e alla propria storia, scritta sulla nostra e solo nostra pelle.
Di Sara Perego e Luna Piccinelli
lunapiccinelli97.lp48@gmail.com
Bibliografia
D’Ambrosio, A., Martini, V., Casillo, N. (2010). Aspetti psicopatologici dei piercing e dei tatuaggi. Gior Neuropsich Età Evol 2014;34:1-10.
Green, T., James, G. L’arte del tatuaggio (2005). Milano, ECO, ISBN 88-8113-311-3.
Bauman, Z. La società dell’incertezza (1999). Il Mulino, Biblioteca paperbacks, Milano.
Fantauzzi, A. (2009). Quando la globalizzazione reinventa la tradizione in Scotti, S., Olavarria, M. E., La natura e l’anima del mondo. Le frontiere della globalizzazione. Pagliai Editore, Firenze, pp.95-102.
Martino, M., Cella, S., Iannaccone, M., Cotrufo, P. (2012). Prevalenza del tatuaggio e del body piercing e relazione con il corpo in un campione di 485 studenti universitari: risultati preliminari. Rivista di Psicologia Clinica n.1 – 2012.
Kertzman, S., Kagan, A., Hegedish, O., Lapidus, R., Weizman, A. (2019). Do young women with tattoos have lower self-esteem and body image than their peers without tattoos? A non-verbal repertory grid technique approach. PLoS ONE 14(1): e0206411.
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