Mindfulness e psicoterapia: cosa trascuriamo?

Tempo di lettura: 7 minuti

Che cos’è stata per me la mindfulness

“Era come se mangiassi per la prima volta, come se leggessi un libro per la prima volta, come se facessi l’amore per la prima volta e tutto a poco a poco prendesse sapore e sapesse di qualcosa di nuovo”

Voglio cominciare così a descrivere il concetto di mindfulness: la consapevolezza di essere presenti in un dato luogo e in un dato tempo, assaporarne ogni attimo, ogni respiro e percepirsi come esseri fisicamente e mentalmente presenti. La prima volta che ho praticato mindfulness è stato durante un corso universitario, quando il mio professore durante la quarantena mi fece comprendere che cosa significasse sentire il proprio corpo posizionato sulla poltrona del mio ufficio, le mie mani fredde, il mio respiro regolare e l’aria intorno a me nella stanza. È una tecnica meditativa che consiste nel fare l’esercizio più banale e più difficile allo stesso tempo: quello di concentrarsi su quanto si sta facendo in quel preciso momento senza pensare né a prima né a dopo. Per la prima volta in vita mia mi accorsi di quanto fosse difficile non ripensare al lavoro che avevo ancora da fare o a alla riunione appena avuta, ma solo di concentrarmi sul presente.

La prima volta fu molto difficile perché non dovevo fare assolutamente niente se non chiudere gli occhi, respirare profondamente e pensare a me, al mio corpo sotto gli abiti che portavo, alla sensazione che i diversi tessuti mi davano di pizzicore o di morbidezza, la posizione delle mie gambe accavallate sotto la scrivania, gli anelli che portavo alle dita delle mani e tutte le sensazioni che percepivo. Mi accorsi che i pantaloni erano comodi, che l’elastico per capelli che portavo mi stringeva, che un orecchio mi fischiava, che avevo un leggero dolore alla schiena, che il mio stomaco brontolava, che il maglione pizzicava leggermente sui polsi, che il ferretto del reggiseno mi stringeva… Ma non sciolsi i capelli, non cambiai maglione e non mi tolsi il reggiseno…restai semplicemente lì ferma e immobile a pensare ad ascoltare il mio respiro e i miei piccoli fastidi facendomeli scivolare addosso e ascoltandoli uno per uno.


“Body scan” è il nome di questo esercizio e solitamente si fa sdraiati: un’audio guida ti aiuta a concentrarti su ogni parte del tuo corpo partendo dalle dita dei piedi e sale molto lentamente dalle caviglie, ai polpacci, alle cosce, all’interno dell’inguine, all’addome, al petto, alle braccia, fino ad arrivare alla punta dei capelli. Ti sembra di esserti denudato e di esserti guardato da fuori, pur essendo rimasto per tutti e 30 i minuti fermo e disteso sul letto a non fare assolutamente niente. È un esercizio molto difficile da fare, infatti io la prima volta non ci riuscii affatto e dopo 15 minuti interruppi la registrazione e mi alzai dal letto. Poi lo ripresi qualche giorno dopo e ci riprovai quella volta e tante altre, ed ora ogni volta che mi sento sovraccaricata o ho la sensazione di avere un peso addosso, mi sdraio sul letto, metto una musica rilassante e faccio questo body scan da sola. Non è importante toccare ogni punto del corpo, né che duri esattamente 30 minuti, quello che importa è riuscire a dedicarsi quel tempo, senza guardare il telefono o il computer, senza pensare a quello che bisognerà fare dopo né a fantasticare sul tempo passato…solo ed esclusivamente tu con il tuo corpo e con la tua mente presente su quel letto e con quella musica.


Perché è così difficile praticarla?

Prima di tutto penso che sia molto importante dire che poche persone sono a conoscenza della mindfulness come efficace tecnica di rilassamento, o meglio poche persone l’hanno davvero praticata o hanno creduto nel suo potenziale. Questo credo che sia possibile spiegarlo per il fatto che nessuno di noi è abituato o capace di fermarsi per “perdere tempo” sdraiato sul letto a non pensare, crede fermamente di non combinare niente, che ciò non risolverà o i suoi problemi né allevierà il proprio stress; ma sono altrettanto sicura che se chiediamo a qualcuno che si sente stressato se ci ha mai provato, la risposta sarà o che non ha tempo o che tanto non funzionerà. Di base, quindi, la risposta sarà “no”.

Perché questo scetticismo? D’altronde se qualcuno ci dicesse che esiste una medicina per lo stress saremmo tutti in fila in farmacia per acquistarla, ma la risposta è che la risoluzione immediata di un problema è ben più attraente di un lavoro su di sé che implica più energie e più tempo da dedicarci. Questo discorso vale tanto per la mindfulness, quanto per la psicoterapia: la maggior parte delle persone ritiene che la terapia non serva a niente, che sia solo un grande spreco di tempo e di soldi e che tanto una volta usciti da quell’ora alla settimana di analisi niente sarà cambiato. Il punto è esattamente questo: non abbiamo la pazienza di vedere come possiamo cambiare nel lungo periodo.

Una pastiglia per lo stress di certo potrebbe risolvere il problema nell’immediato e farci sentire meglio, ma non sarebbe una grande cosa per il nostro organismo prendere medicine tutti i giorni. Ancora di più che su un piano puramente farmaceutico, voglio spostare la questione su un piano mentale: nel momento in cui vediamo che con un percorso terapeutico traiamo dei benefici a lungo termine, per quante energie possiamo aver investito e per quanti soldi abbiamo speso, sappiamo che il “risultato” sarà solo ed esclusivamente frutto del nostro lavoro.Questa credo che possa essere un’arma a doppio taglio: nel momento in cui il percorso riesce e ci porta all’obiettivo desiderato, va tutto bene. Ma se ciò non dovesse avvenire? Se non dovessimo sentirci meglio? In molti casi penseremmo che il terapeuta non è valido o che la terapia su di noi non funziona.

Raramente passa il messaggio che non tutti gli psicologi sono uguali, che le terapie possono essere diverse e che non sempre al primo tentativo il percorso terapeutico andrà a buon fine: spesso bisogna avere la pazienza di cominciare più cammini diversi e vedere quale possa essere il più confacente a noi.

Per meccanismi di difesa, per scetticismo e per paura spesso si tende a fare un’unica prova del tipo “o la va o la spacca” e se non funziona allora avrò avuto la prova che il lavoro su di me è assolutamente inutile e non porta a niente di buono.

Viviamo a 2000 all’ora

Il tempo che decidiamo di non investire su di noi o sul nostro benessere sarà davvero tempo sprecato: sprecato in medicine, sprecato in visite, sprecato in lamentele, sprecato in giorni senza sapore e senza senso. A tutto ciò possiamo aggiungere che nella nostra società c’è ancora un grande tabù circa l’andare in terapia, circa il dichiararsi bisognosi di un aiuto. Non si parte mai dal presupposto che tutti noi siamo bisognosi e solo alcuni sono abbastanza coraggiosi da dire che stanno facendo qualcosa per occuparsi del proprio benessere psichico e per volersi davvero bene.

Siamo tutti esseri mancanti semplicemente per il fatto che non siamo perfetti: dal latino “perfecto significa finito, compiuto, dato di per sé e non esiste al mondo essere umano che possa dirsi veramente finito. Semplicemente perché non smettiamo mai di imparare, ci sarà sempre qualcosa che non sappiamo, qualcuno che non conosciamo, qualche posto che non abbiamo visitato e potrà dirsi finito colui che non avrà più niente da vedere, da fare, da imparare o nessuno da conoscere. In una parola? Morto.

Chi non ha più nessuna cosa da fare non è perfetto: è morto perché non c’è più nessun progresso che possa fare e di per sé il concetto di perfezione non può esistere.

Se solo ci prendessimo qualche minuto per riflettere sulla nostra intrinseca manchevolezza, forse ci renderemmo conto di quanto corriamo sempre più veloci ogni giorno, per non restare indietro, per non farci schiacciare…per sopravvivere. E facendo tutto ciò trascuriamo noi stessi.

Francesca Colombo

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